Quando nel 1975 Tadeusz Kantor mette in scena La classe morta per la prima volta a Cracovia, è un artista di sessant'anni al culmine del suo percorso creativo; un cammino iniziato col Teatro Indipendente sotto l'orrore della guerra, quell'esperienza angosciosa i cui simboli incombono come apparizioni ritornanti in buona parte dei suoi lavori.
Non è facile restituire un'idea lineare della scrittura scenica della Classe morta: la partitura drammaturgica procede come animata dai singhiozzi della memoria, ora ancorandosi ad un particolare remoto, ora spostando il punto di vista lungo l'asse del tempo. Figure sospese fra la morte e l'ultima stagione della vita, i personaggi ritornano ciclicamente all'età mitica dell'infanzia, alle sue innocenti paure, alle sue giocose ossessioni; lasciando presagire che ben altre paure, ben altre ossessioni invaderanno l'esistenza. In quella prima rappresentazione del 1975, come in molte altre successive, Kantor stesso è presente come demiurgo sulla scena, dirigendo, sospingendo, incalzando gli attori, in definitiva dichiarandosi come il soggetto reale nella cui psiche vivono e trovano unità le fantasie perturbate della scena.
Nella bellissima versione realizzata da Nanni Garella con la compagnia Arte e Salute, intitolata semplicemente La classe, l'attenzione estetica allo spazio originario si arricchisce di una poetica rivisitazione dei personaggi − misurata sul contesto della rappresentazione e sul potenziale individuale degli attori − che guadagnano una spiritualità non puramente formale e una presenza incarnata nel tempo. Un'operazione fedele alla filosofia kantoriana, per cui l'opera teatrale non dovrebbe rimanere cristallizzata in un testo e in un'intenzione, ma rivivere di volta in volta assecondando le urgenze del momento. Così, rispetto alla versione filmata da Andrej Wajda nel 1977, questa partitura scenica proposta da Garella risulta più "morbida" e leggibile, con una più forte inclinazione alle nostalgie dell'esistenza, alle vite mancate, al ricordo della felicità.
Non è un caso che in questo testo la morte scompaia anche dal titolo; pur nella cura rispettosa dell'universo psichico inscenato da Kantor, con le deformazioni espressioniste dei volti e la sonorità infantile delle cantilene, in questa proposta si ravvivano delicatamente i colori della vita. Persino la bidella con la scopa, grottesca allegoria della morte, non ha più la lugubre ambiguità del personaggio originario, ma adesso è quasi una burbera matrona felliniana, interpretata peraltro con notevole sensibilità e misura. Sparisce anche la macchina fotografica dal finale, oggetto che fissa terribilmente l'istante, ed è in Kantor più volte associata al mostruoso e alla morte.
Per chi conosce la storia della compagnia, questo lavoro si arricchisce di un'ulteriore sollecitazione ermeneutica, che insiste poeticamente sulla relazione fra il teatro e la vita. Tutti gli attori provengono infatti dall'esperienza della malattia psichica, elemento intorno al quale si è costituita la compagnia stessa. È una circostanza che può risultare invisibile, oppure indifferente, visto il buon livello professionale della compagnia; o che viceversa può evocare con la forza della carne viva la lezione di Artaud sulla funzione del teatro e sul suo rapporto «magico e atroce con la realtà e col pericolo».
Convinti della duplice, intensa forza poetica di questo lavoro, siamo rimasti allibiti – è doveroso sottolinearlo – dal comportamento bislacco di alcuni spettatori, adulti e dall'aria rispettabile, seduti tra le prime file del pubblico. A pochi passi dalla scena commenti ridanciani, caramelle scartocciate, ispezioni ripetute e rumorose delle borse: un viatico di mancata empatia con la rappresentazione e un'insolente mancanza di rispetto verso gli attori e gli spettatori. Un'educazione teatrale che, in un mondo ideale, fosse impartita a scuola dovrebbe anzitutto coltivare l'attenzione al senso del sacro che il teatro è capace di generare.
Lo spettacolo è stato molto apprezzato dal pubblico; prova ne sia l'applauso lunghissimo e riconoscente, con una decina di chiamate in scena, giusto tributo ad un progetto teatrale di notevole qualità, eseguito con generosità e rigore; ad oggi fra le cose migliori che si sono affacciate sui palcoscenici delle sei edizioni del Napoli Teatro Festival.